giovedì 31 marzo 2016

La massa dell'arte,guardarsi attorno in un momento che ha perso l'orientamento.

LA MASSA DELL’ARTE, guardarsi attorno in un momento storico che ha perso l’orientamento - Mario Benedetto.
C’è un vasto pubblico attorno alle arti visive, retiniche che dir si voglia, sempre più in continua espansione. Ciò non significa una maggior comprensione dell’opera d’arte da parte del grande pubblico, una raggiunta capacità di lettura e fruizione della gente, ma, semplicemente, perché è la massa stessa che la produce.

Oramai le acque si sono rotte con l’effetto di uno tsunami. Viviamo un momento storico che ha perso l’orientamento e la sua identità. Che ognuno di noi provi a dare sfogo al proprio talento e alla propria creatività come meglio creda e senza trascurare nessun aggeggio che la tecnologia ci propina, è sacrosanto, ma sarebbe più opportuno che lo facessimo con un po’ di coscienza critica. Il nostro sistema educativo è carente sin dall’infanzia, perché non si adopera a sufficienza per uno sviluppo armonico dei due emisferi cerebrali. Poi l’educazione visiva, a differenza del linguaggio verbale, che si evolve in forma continua, resta ferma, mediamente, allo stadio raggiunto verso i dieci/dodici anni, mentre, secondo me, l’insegnamento della comprensione dell’arte, di giudicarla e apprezzarla dovrebbe costituire la parte fondamentale di ogni programma educativo. Non per altro perché siamo i detentori di una parte consistente del patrimonio artistico mondiale e che i nostri padri costituenti ne avevano capita l’importanza e con lungimiranza l’hanno espressa e fissata in modo chiaro nell’Art. 9 della Costituzione. Questa situazione sinteticamente tratteggiata si è diffusa perché è passato il concetto che l’arte può essere fatta da tutti senza nessun bisogno d’investitura ufficiale esterna che faccia chiarezza su chi è vero artista e chi no e che non occorre avere una preparazione accademica, conoscere la storia dell’arte, aver esposto da qualche parte etc. Trovo semplicistico sostenere che “i padroni dell’arte” attuali hanno fatto tutto questo. Mattew Carey-Williams, curatore della White Cube di Londra, ha definito l’arte, un super business, il più grande mercato senza regole al mondo, dopo il traffico di droga e la prostituzione, poiché il giro d’affari è aumentato del 564 per cento in meno di dieci anni e alla faccia della crisi mondiale. Molti, infatti, sono i protagonisti che hanno contribuito a questo immenso caos. Basterebbe pensare a quanto succedeva nella seconda metà del secolo scorso. Eppure l’epoca avviata con la Pop Art era stata presentata come il superamento nella divisione fra arte e società mediante l’introduzione di forme e materiali estranei al campo dell’arte che imponevano l’autonomia, l’autosufficienza dell’opera. Qualsiasi cosa poteva essere trasformata in arte, ma per avere validità occorrevano il patrocinio e la legittimazione dei mediatori istituzionali. Tanta produzione era esclusa a priori perché considerata non in linea con la visione di questo micropotere fatto di pochi galleristi, collezionisti e mercanti i quali in sintonia e con la complicità delle istituzioni pubbliche si arrogavano il diritto della legittimazione e della consacrazione di prodotti molto spesso, assai discutibili. Abbiamo assistito a un succedersi di mode abbastanza effimere in cui fare arte spesso aveva il significato di cose minime, di delegare a uno specialista-artigiano la realizzazione di tutto il progetto o di decontestualizzare un oggetto togliendolo dal proprio spazio originario, o di risolvere un’opera con una frase, un’idea, un concetto. Con certezza a questo sconvolgimento attuale un contributo notevole l’ha dato l’operato della Saatchi Gallery di Londra, che a differenza o meglio in contrapposizione alla Tate Gallery, è sorta come un’impresa speculativa che estendeva la partecipazione al mondo dell’arte al maggior numero possibile di artisti e considerando i fruitori come un pubblico di consumatori con una logica neoliberista. Anche Larry Gagosian dà il suo apporto in questa panoramica con le sue tredici Gallerie distribuite su tutto il pianeta e la sua “filosofia” di espansione brandizzando sempre i soliti artisti. Esiste come “un cerchio magico” che decide le quotazioni nelle aste (con le prevendite assicurate) e le sorti di chi dovranno essere gli artisti superstar, sempre i soliti nomi, naturalmente, finché la parabola di questi ultimi scende per lasciare spazio alla carriera di giovani artisti sempre creata e portata avanti dallo stesso mercato senza nessun apporto né da critici e neanche dai musei. Un mercato costituito da collezionisti e mercanti insieme, difficilmente distinguibili da chi professa l’una o l’altra professione (lievitando i prezzi) e fra questi, oltre a Peter Brant, troviamo la famiglia reale del Qatar, i Mugrabi, il gallerista di New York William  Acquavella. E che dire di un’Istituzione come la Biennale di Venezia! L’edizione del 2013 curata da Gioni, non ha fatto capire nulla su chi è artista e chi no, cosa è arte e cosa non è. Vi si trovavano accomunate le figure più disparate: dai ricercatori agli autodidatti, agli psicopatici, dai filmmaker ai video artisti alternativi, dall’antropologia all’anti arte, da chi vuole trasformare la tecnologia e la scienza in arte, tante cose bizzarre, marginali ed estranee al mondo dell’arte, e tante inclassificabili. Un cambio di direzione è stato salutare, con la svolta di Okwui Enwezor. L’edizione della Biennale 2015, infatti, ha rivalutato la figura dell’artista come persona colta, quasi sempre ben equipaggiata da titoli accademici. Vien da fare una riflessione che spiegherebbe, in parte il problema. L’inutilità di quest’attività ha conferito una totale autonomia, per cui l’arte è concentrata su se stessa: gli artisti visuali sono intellettuali in quanto mirano a sollevare problematiche d’ogni genere, intenti a creare collegamenti con altre discipline, come la filosofia, la storia, la critica, la politica, la psicanalisi e ad altro ancora. Sostanzialmente l’arte è autoreferenziale e non ha interesse a suscitare emozioni. Quanto spazio e peso ha oggi la Cultura? La risposta è superflua.

giovedì 22 maggio 2014

Parole svuotate di senso - tra successo, qualità e significatività

Parole svuotate di senso
Tra successo, qualità e significatività

Non c’è bisogno di scomodare il solito Hegel per ribadire che l’aumento smisurato di un fenomeno ne altera le caratteristiche e la qualità. ‘E sotto gli occhi di tutti l’avvenuta esplosione creativa planetaria spinta, anche, dai tanti aggeggi tecnologici oggi disponibili, che, se da un lato costituisce un fattore positivo, dall’altro, contribuisce a rendere sempre più intricata la confusione che ribolle nel sistema dell’arte.
Delle migliaia di aspiranti artisti, per limitarci alla sola Italia, che ogni anno si buttano nella pugna con le strategie più disparate (vedi qualche tipologia, brillantemente descritta da Luca Beatrice, nel libro L’invenzione dell’artista come star) tese a far conoscere il loro talento ai nuovi collezionisti, mercanti, galleristi e presunti tali, a suon di eventi, fiere e similari, soltanto un risicato numero riesce a consolidare la propria posizione e a collocarsi nel mercato sempre più inflazionato. Nonostante questo duro passaggio, non si può negare che mai, come in quest’epoca, sia stata data tanta attenzione agli emergenti e, non soltanto, per un rinnovato ricambio generazionale. Non occorre anche, dimenticare come alle nostre latitudini la meritocrazia risulta da sempre latitante. Questo spiega anche la qualità media delle nostre scuole, accademie e delle sedi qualificate, per fortuna salvate, da minoranze di docenti, la cui onestà e professionalità non possono essere messe in discussione.
La formazione è fondamentale in ogni settore e in questa specifica fase la conoscenza assume un ruolo di primaria importanza. Ricordiamoci che il nostro è un paese senza memoria e corrotto come nessun altro paese occidentale. In uno scenario simile anche la parola “qualità”, a parte le poche famose eccellenze, nella quotidianità, risulta sparita completamente o assume una connotazione negativa. Per tornare all’argomento, è usata quando un autore, rifacendosi ad un suo predecessore o a esperienze già trascorse, manifesta una scarsa comprensione generale ed esprime un risultato di qualità inferiore. La storia della critica ci ha ampiamente dimostrato di quanta poca stabilità abbia questo termine a livello intersoggettivo con innumerevoli esempi di esperienze artistiche ignorate o fraintese, che poi, in un momento successivo, con altre modalità di ricezione, si sono rivelate proficue e ricche: grandi maestri di un tempo che sono diventati minori e viceversa.
 Le cose sono sempre più complesse di come, in un primo tempo, appaiono.
Qualità e successo non vanno, facilmente, a braccetto. Pensate a Cézanne, alle sue brutte opere giovanili e a quanto impegno e fatica ha profuso in tutta la sua carriera con l’incanto delle sue stupende opere che ci ha lasciato Come non citare la sua affermazione: “Il lavoro che fa realizzare un progresso nel proprio mestiere è compenso sufficiente per l’incomprensione degli imbecilli”.
Ci si domanda perché precludere, proprio all’artista, la rivendicazione di “libero professionista”, tanto sudata e mai considerata pienamente, anche se, proprio l’atto creativo, così a sé stante, è, fra le attività umane, quella più inutile e la parola “arte” è diventata troppo generica e poco specifica?
E perché mai, il nostro artista, non dovrebbe aspirare, come per tutte le altre professioni, al successo? Verrebbe da dire: Chi non cerca il successo alzi la mano? Tutti e dappertutto sono spinti a conquistare il successo, a migliorare la propria esistenza, a diventare meno poveri, a prescindere dal loro grado di cultura. Scalfari sostiene che la molla che spinge a inseguire il successo sia dovuta al fatto di pensare che avendo successo si lascerà una traccia e si potrà essere ricordati.
Io non credo proprio che rincorrere il successo possa coincidere con la realizzazione di se stessi che è la cosa cui ognuno di noi dovrebbe aspirare. Realizzare se stessi, esclude in partenza ogni ingannevole spinta esterna a diventate quello che non si è in grado di fare sulla base di modelli sociali che ci vengono rappresentati. Secondo me, occorre recuperare qualche parola persa per strada, quali per esempio onestà, l’onestà con se stessi, evitando di puntare al consenso e al riconoscimento o alla furbizia di captare lo spirito del momento per un piatto di lenticchie… Meglio rivolgersi ad esplorare e sviluppare una propria più approfondita narrazione personale. Utilizzare la parola “significatività”, in questo caso, esprime miglior senso concettuale rispetto all’ingannevole utilizzo del termine qualità, riferendoci a quella capacità generativa propria dell’opera di innescare altri processi pieni di significati germinativi capaci di diventare motori d’impulsi verso lo sviluppo della narrazione collettiva dell’arte.
E tutto ciò con la piena consapevolezza dei rischi insiti, perché nulla è assicurato che avvenga o non avvenga, hic et nunc o, mai più. In quanto, come per la scienza - nell’evoluzione biologica il patrimonio genetico di una determinata popolazione dipende in gran parte da fattori casuali, mi riferisco alla deriva genetica - così, anche per l’arte, esistono esperienze che in determinate condizioni possono costituire una spinta generativa come pure non diventarlo mai.

Mario Benedetto

Maggio, 2014 ( Pubblicato nel Blog Ricontemporaneo n 7)

mercoledì 23 aprile 2014

QUALCOSA NON FUNZIONA - Non basta la creatività ci vuole anche coscienza critica (pubblicato su www.ricontemporaneo.org)


INTERVENTI
Descrizione: http://www.ricontemporaneo.org/index_htm_files/11061.png
Un interventodiMarioBenedetto
SOMMARIO
  RIFLESSIONI, POLEMICHE, PROPOSTE DI ARTE CONTEMPORANEA                                                                     
16 febbraio 2014 QUALCOSA NON FUNZIONA  Non basta la creatività, ci vuole anche coscienza criticaRestando nel tema proposto da Seveso per questo numero, e senza evocare le gesta di quella spudorata oligarchia finanziaria che monopolizza/inquina le menti e il mercato globale dell’arte coi “prodotti tossici” dei soliti nomi di cui già tante volte abbiamo discusso (basterà citare, uno per tutti, il paragone delle opere di Damien Hirst ai sub-prime dell’arte mondiale fatto da Julian Spalding con un articolo sull’Independent in occasione della grande retrospettiva dell’artista di Bristol), vorrei analizzare il fenomeno in generale. Anche se un conto è l’arte, un'altra cosa è il mercato, e un’altra ancora è la società, ma tutto è interconnesso. Il problema è che siamo maledettamente bloccati in un paese che ha smarrito e umiliato la propria monumentale ricchezza che è la cultura. Cultura che non riesce a farsi rispettare e valorizzare (poiché sono sempre quelli del “nuovo mondo” a imporci l’agenda, come già è avvenuto in settembre 2009) riuscendo a far entrare, come benessere immateriale, la creatività e l’innovazione nei parametri del PIL che misurano la ricchezza di un paese.In quest’epoca globalizzata, post-moderna, post-umana e post-tutto, siamo sommersi da continui messaggi di ogni tipo e da immagini diffuse con sempre più sofisticati mezzi tecnologici che non conoscono soste di evoluzione. Non ci si orienta più. Si assiste ad una specie di esplosione di creatività in base alla quale chiunque, sempre grazie a queste tecnologie, può produrre immagini a suo modo e maniera. La moneta cattiva scaccia quella buona! Nel bene o nel male la tracimazione è avvenuta. Siamo circondati, ma anche impreparati. Questo è il punto!    Hegel sosteneva che l’aumento quantitativo di un fenomeno cambia anche la qualità stessa dell’oggetto in causa. Questa società della velocità ama tempi brevi che non permettono approfondimenti, lascia vedere quasi soltanto la superfice delle cose. Secondo la logica dell’alternanza si aspetta un ritorno all’ordine anti-relativista. La cultura ha bisogno di tempo e oggi il tempo è contratto e la cultura è insidiata e mortificata. E’ diminuita la coscienza critica e si è imposta una creatività sregolare ed autoreferenziale. Gli autori più abili a promuoversi sono riusciti ad ottenere una canonizzazione ufficiale dal sistema. Chiunque, deresponsabilizzato, può imporsi arrancando in questo mare aperto dove manca una seria “vigilanza” sulla qualità. Termine alquanto ostico perché si basa su un “occhio” acquisito attraverso anni e anni di frequentazioni e di pratica artistica, per cui converrebbe parlare, meglio di significatività. E dunque che succede?   Come in alto mare: c’è chi galleggia e chi va a fondo. Per chi non vuole cimentarsi con la faticosa costruzione di una solida base accademica, il così detto Contemporaneo offre un accogliente rifugio a questa pseudo creatività. Influiscono le tecniche e le strategie adoperate di chi vuole stare a galla. E qui tocchiamo un punto debole: l’attuale sistema dell’arte. La critica d’arte appare indebolita, vive nell’eterno dissidio tra antagonismo e parità, piuttosto che assumere una veste di autorevolezza. Come sostiene lo stesso James Elkins “c’e un’enorme produzione di critica d’arte, e un’altrettanta enorme tendenza ad ignorarla”. Prevale molto spesso, come per ogni altro settore, la sindrome del “Mollica, giornalista televisivo”, di tipo promozionale, che punta alla creazione del consenso. In effetti sono molto pochi quelli che sanno essere schietti e senza peli sulla lingua. C’è in corso, infatti, un acceso dibattito sul valore della recensione negativa e le sue “conseguenze nella vita reale” per il recensore ed il recensito. Molte produzioni “artistiche” rappresentano una sfida alla concezione marxiana del valore inteso come quantità di lavoro profuso nel bene economico-merce essendo prive di qualsiasi abilità realizzativa. Che una tale opera, scambiata con del denaro, acquisti lo status di opera d’arte è ingiurioso, e costiituisce una vera e propria truffa alle persone. E se poi l’opera è contesa a suon di milioni, fa notizia, ai giornali fa comodo e il cerchio si chiude. Non per questo dovremmo  gioire e omologarci a questo sistema. Se un individuo, un artista, cerca onestamente se stesso, personalmente credo non possa venire attratto dai falsi modelli proposti da una non-cultura al servizio di un potere corrotto, incapace di avere una sana visione civile di progresso, prosperità e giustizia. Alla fine sarà, il suo, un contributo di autentica libertà creativa, anche perché l’obiettivo primario del suo lavoro non è diventato solo il riconoscimento professionale, il successo personale...Occorre avere, sì, un linguaggio legato al proprio tempo e in armonia con la propria natura, esplorando e sviluppando una narrazione autonoma, ma senza scimmiottare, riciclando qualcuno o qualcosa


martedì 9 luglio 2013


Attorno al FESTIVAL  dei  VICOLI    SCILLA, 26-28 luglio 2013

Fra le notizie che, a volte, mi arrivano dalla bella e sfortunata Scilla, questa del Festival, mi pare un po’ interessante. Quando, ormai di sagre estive ed autunnali si soccombeva e a voler essere un po’ originali, restava la generosa zucchina lunga, cambiare registro è buon segno. Allora, ben venga il Festival, e soprattutto quello dei Vicoli. Non so, non mi è dato sapere, con cosa gli organizzatori intendano nutrire il calendario degli eventi per questa prima edizione. L’argomento è buono e si presta ad una molteplicità di letture. Rimediare all’oltraggio del tempo con gli annessi e connessi non è cosa semplice. Il paese non brilla  nel saper  conservare memoria della sua storia recente e passata. Il destino di Scilla è stato segnato da tempo, all’incirca cinquant’anni fa. Aveva tutti  i presupposti per non temere rivali, sotto nessuno aspetto, al proprio successo e sviluppo futuro. Al potere di allora, legato e appiattito sull’interesse di pochi privilegiati, è mancata la cultura e la lungimiranza di una visione globale chiara. Il paese non è riuscito a cogliere gli aspetti legati ai processi di medio e lungo termine e all’interesse comune. Ad una mostra a Milano del 1982 citavo le parole di Guttuso: Scilla è natura è umana miseria, è bellezza e secolare dolore, è un luogo dove chi voglia può essere aiutato a ritrovare le strade dell’arte. In quegli anni avevo posto la mia attenzione su quanto stava terribilmente scomparendo, travolti dall’euforia del boom economico in concomitanza stavamo perdendo quanto di buono c’era nella cultura legata alla civiltà contadina e marinara che per secoli era stata asse portante dei nostri predecessori. Argomento affrontato con una vasta esposizione (100 opere)  e tavola rotonda inclusa, a Zurigo, con grande partecipazione e successo, di critica e di pubblico. Non sto a ricordare di un’altra volta quando un giornalista, commentando le mie opere su Chianalea,  si chiedeva se questo posto esistesse realmente o fosse frutto della mia fantasia, suscitando una orgogliosa e vibrante reazione epistolare reciproca con un nostro compaesano del posto e lettore del suo giornale.  E di aver già scritto di quanto avvilente potesse essere  far diventare la civiltà contadina e marinara  esperienza di museo, come curiosità, su cui poggiar lo sguardo con affetto, ma con nell’animo un atteggiamento di superiorità. Oramai l’urbanizzazione, con i suoi modi di comportamento e di cultura si è diffusa in ogni luogo, il modo di vita urbano è pressocchè uniforme. A ben poco serve fregiare Chianalea fra i Borghi più belli d’italia quando ormai abbiamo permesso che perdesse la sua identità, la sua storia e la sua stessa anima. Nel  buio del postmoderno, allevati e livellati dalla TV di regime magnetizzati dalla civiltà dello spettacolo ( lo spettacolo è il sole che non tramonta mai nell’impero della passività moderna) è difficile e faticoso uscirne lucidi. Ma non divaghiamo e torniamo ai vicoli. Secondo me, la cosa minima e semplice, da non lasciar cadere è quella di realizzare una mappatura fotografica che descriva, sintetizzi ed interpreti le trasformazioni in atto in quest’area evidenziando la complessità dei processi in corso, rivelandone aspetti peculiari, criticità e contraddizioni. L’attenzione non dovrebbe essere rivolta soltanto alle abitazioni e alle cose, ma ai diversi attori dell’agglomerato: abitanti con le loro storie, artigiani con  le rispettive attività, elementi naturali colti nei diversi aspetti atmosferici. Occorre restituire, in immagini, l’interpretazione  di cosa resta della vita dei vicoli da condividere con la cittadinanza come contributo di conoscenza e come strumento di supporto e stimolo al dibattito pubblico. Auspico che in questo momento particolare di crisi di sistema, l’iniziativa possa trasformarsi in una rinascita vera, genuina e non costituisca una semplice occasione per accodarsi alle mode, assai diffuse e destinate a non durare. Non dimentichiamo che lo sviluppo di un territorio non è mai legato solo alla sua realtà economica, ma è strettamente legato alla capacità dei cittadini di attivare iniziative culturali valide ed importanti che sappiano cogliere gli elementi necessari per promuovere la crescita complessiva del territorio di cui fanno parte integrante.

Mario Benedetto, 8 luglio 2013