martedì 9 luglio 2013


Attorno al FESTIVAL  dei  VICOLI    SCILLA, 26-28 luglio 2013

Fra le notizie che, a volte, mi arrivano dalla bella e sfortunata Scilla, questa del Festival, mi pare un po’ interessante. Quando, ormai di sagre estive ed autunnali si soccombeva e a voler essere un po’ originali, restava la generosa zucchina lunga, cambiare registro è buon segno. Allora, ben venga il Festival, e soprattutto quello dei Vicoli. Non so, non mi è dato sapere, con cosa gli organizzatori intendano nutrire il calendario degli eventi per questa prima edizione. L’argomento è buono e si presta ad una molteplicità di letture. Rimediare all’oltraggio del tempo con gli annessi e connessi non è cosa semplice. Il paese non brilla  nel saper  conservare memoria della sua storia recente e passata. Il destino di Scilla è stato segnato da tempo, all’incirca cinquant’anni fa. Aveva tutti  i presupposti per non temere rivali, sotto nessuno aspetto, al proprio successo e sviluppo futuro. Al potere di allora, legato e appiattito sull’interesse di pochi privilegiati, è mancata la cultura e la lungimiranza di una visione globale chiara. Il paese non è riuscito a cogliere gli aspetti legati ai processi di medio e lungo termine e all’interesse comune. Ad una mostra a Milano del 1982 citavo le parole di Guttuso: Scilla è natura è umana miseria, è bellezza e secolare dolore, è un luogo dove chi voglia può essere aiutato a ritrovare le strade dell’arte. In quegli anni avevo posto la mia attenzione su quanto stava terribilmente scomparendo, travolti dall’euforia del boom economico in concomitanza stavamo perdendo quanto di buono c’era nella cultura legata alla civiltà contadina e marinara che per secoli era stata asse portante dei nostri predecessori. Argomento affrontato con una vasta esposizione (100 opere)  e tavola rotonda inclusa, a Zurigo, con grande partecipazione e successo, di critica e di pubblico. Non sto a ricordare di un’altra volta quando un giornalista, commentando le mie opere su Chianalea,  si chiedeva se questo posto esistesse realmente o fosse frutto della mia fantasia, suscitando una orgogliosa e vibrante reazione epistolare reciproca con un nostro compaesano del posto e lettore del suo giornale.  E di aver già scritto di quanto avvilente potesse essere  far diventare la civiltà contadina e marinara  esperienza di museo, come curiosità, su cui poggiar lo sguardo con affetto, ma con nell’animo un atteggiamento di superiorità. Oramai l’urbanizzazione, con i suoi modi di comportamento e di cultura si è diffusa in ogni luogo, il modo di vita urbano è pressocchè uniforme. A ben poco serve fregiare Chianalea fra i Borghi più belli d’italia quando ormai abbiamo permesso che perdesse la sua identità, la sua storia e la sua stessa anima. Nel  buio del postmoderno, allevati e livellati dalla TV di regime magnetizzati dalla civiltà dello spettacolo ( lo spettacolo è il sole che non tramonta mai nell’impero della passività moderna) è difficile e faticoso uscirne lucidi. Ma non divaghiamo e torniamo ai vicoli. Secondo me, la cosa minima e semplice, da non lasciar cadere è quella di realizzare una mappatura fotografica che descriva, sintetizzi ed interpreti le trasformazioni in atto in quest’area evidenziando la complessità dei processi in corso, rivelandone aspetti peculiari, criticità e contraddizioni. L’attenzione non dovrebbe essere rivolta soltanto alle abitazioni e alle cose, ma ai diversi attori dell’agglomerato: abitanti con le loro storie, artigiani con  le rispettive attività, elementi naturali colti nei diversi aspetti atmosferici. Occorre restituire, in immagini, l’interpretazione  di cosa resta della vita dei vicoli da condividere con la cittadinanza come contributo di conoscenza e come strumento di supporto e stimolo al dibattito pubblico. Auspico che in questo momento particolare di crisi di sistema, l’iniziativa possa trasformarsi in una rinascita vera, genuina e non costituisca una semplice occasione per accodarsi alle mode, assai diffuse e destinate a non durare. Non dimentichiamo che lo sviluppo di un territorio non è mai legato solo alla sua realtà economica, ma è strettamente legato alla capacità dei cittadini di attivare iniziative culturali valide ed importanti che sappiano cogliere gli elementi necessari per promuovere la crescita complessiva del territorio di cui fanno parte integrante.

Mario Benedetto, 8 luglio 2013

sabato 27 aprile 2013




L’INCISIONE

Che cosa rappresenti per me questa forma di linguaggio, o questa pratica, che dir si voglia, non è cosa semplice da trattare. Un legame di vecchia data mi tiene come abbarbicato a questa tecnica. Da piccolo, la mia prima monografia è stata Rembrandt, i libri d’arte, sempre pochi, delle biblioteche, visionati a più riprese, surrogavano le mancanti visite a mostre e musei assenti, anche se la sede del mio Liceo era collocata all’interno dell’edificio del Museo stesso (Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria). Tutte questi e altri motivi costituiscono gli elementi essenziali per il mio viatico nel mondo dell’arte. La predilezione per il senso plastico, per i forti contrasti, per le luci e le ombre ben marcate, per il bianco e nero e, quindi, l’inchiostro di china, ha spianato, poi, la strada per entrare in quella raffinata e iniziatica coorte di facitori d’arte che è l’incisione. L’idea che il piacere unico nutrito, incidendo quasi il bianco del foglio, col pennino premuto fino a schiattare e che prosciugandosi consegnava quei segni neri decisi, vibrati con rapidi gesti e mossi da un senso o sentimento traboccante, potesse moltiplicarsi, mi rapiva. Occorreva passare all’elaborazione di una matrice. Poter incidere, finalmente, il metallo e affrontare tutte quelle diverse operazioni necessarie alla calcografia, per poi, dopo il loro susseguirsi faticoso, trepidare al primo passaggio della lastra nel giro dei cilindri, e poterne valutare il risultato ottenuto su carta, era diventato un mio bisogno primario. Non è facile! Inibire il gesto e il vigore di un segno. Occorreva, per quel gesto, armarsi d’infinita e paziente dolcezza, delegando all’acido il compito di scavare e ricavare il segno voluto stabilendone i tempi d’immersione, con un’immedesimazione quasi corporale con esso. Mi vengono in mente le lunghe notti passate a eseguire prove e tirature, a ripetere gesti dopo gesti, tra le mie povere cose, lontano dal mondo, lontano da tutto. Alla fine, saturo marcio d’inchiostro, di solventi e di fatica, qualche volta, compensato da un buon risultato, altre, invece, incazzato nero ma pronto, ugualmente, a rincorrere quella grazia illuminante, sfuggita dalle mani furtivamente. Che l’arte, quella vera, sia un’attività umana che non mira al profitto, e che non asseconda le mode, è risaputo. Essa ubbidisce e segue soltanto un suo ordine interno. L’incisione rappresenta la sua parte più intima e riservata.

26 Aprile 2013 - Mario Benedetto

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