LA MASSA DELL’ARTE, guardarsi attorno in un momento
storico che ha perso l’orientamento - Mario Benedetto.
C’è un vasto pubblico attorno alle arti visive, retiniche
che dir si voglia, sempre più in continua espansione. Ciò non significa una
maggior comprensione dell’opera d’arte da parte del grande pubblico, una
raggiunta capacità di lettura e fruizione della gente, ma, semplicemente,
perché è la massa stessa che la produce.
Oramai le acque si sono
rotte con l’effetto di uno tsunami. Viviamo un momento storico che ha perso
l’orientamento e la sua identità. Che ognuno di noi provi a dare sfogo al
proprio talento e alla propria creatività come meglio creda e senza trascurare
nessun aggeggio che la tecnologia ci propina, è sacrosanto, ma sarebbe più
opportuno che lo facessimo con un po’ di coscienza critica. Il nostro sistema
educativo è carente sin dall’infanzia, perché non si adopera a sufficienza per
uno sviluppo armonico dei due emisferi cerebrali. Poi l’educazione visiva, a
differenza del linguaggio verbale, che si evolve in forma continua, resta ferma,
mediamente, allo stadio raggiunto verso i dieci/dodici anni, mentre, secondo
me, l’insegnamento della comprensione dell’arte, di giudicarla e apprezzarla
dovrebbe costituire la parte fondamentale di ogni programma educativo. Non per altro
perché siamo i detentori di una parte consistente del patrimonio artistico mondiale
e che i nostri padri costituenti ne avevano capita l’importanza e con
lungimiranza l’hanno espressa e fissata in modo chiaro nell’Art. 9 della
Costituzione. Questa situazione sinteticamente tratteggiata si è diffusa perché
è passato il concetto che l’arte può essere fatta da tutti senza nessun bisogno
d’investitura ufficiale esterna che faccia chiarezza su chi è vero artista e
chi no e che non occorre avere una preparazione accademica, conoscere la storia
dell’arte, aver esposto da qualche parte etc. Trovo semplicistico sostenere che
“i padroni dell’arte” attuali hanno fatto tutto questo. Mattew Carey-Williams,
curatore della White Cube di Londra, ha definito l’arte, un super business, il
più grande mercato senza regole al mondo, dopo il traffico di droga e la
prostituzione, poiché il giro d’affari è aumentato del 564 per cento in meno di
dieci anni e alla faccia della crisi mondiale. Molti, infatti, sono i
protagonisti che hanno contribuito a questo immenso caos. Basterebbe pensare a
quanto succedeva nella seconda metà del secolo scorso. Eppure l’epoca avviata
con la Pop Art era stata presentata come il superamento nella divisione fra arte
e società mediante l’introduzione di forme e materiali estranei al campo
dell’arte che imponevano l’autonomia, l’autosufficienza dell’opera. Qualsiasi
cosa poteva essere trasformata in arte, ma per avere validità occorrevano il
patrocinio e la legittimazione dei mediatori istituzionali. Tanta produzione era
esclusa a priori perché considerata non in linea con la visione di questo micropotere
fatto di pochi galleristi, collezionisti e mercanti i quali in sintonia e con
la complicità delle istituzioni pubbliche si arrogavano il diritto della
legittimazione e della consacrazione di prodotti molto spesso, assai
discutibili. Abbiamo assistito a un succedersi di mode abbastanza effimere in
cui fare arte spesso aveva il significato di cose minime, di delegare a uno
specialista-artigiano la realizzazione di tutto il progetto o di
decontestualizzare un oggetto togliendolo dal proprio spazio originario, o di
risolvere un’opera con una frase, un’idea, un concetto. Con certezza a questo
sconvolgimento attuale un contributo notevole l’ha dato l’operato della Saatchi
Gallery di Londra, che a differenza o meglio in contrapposizione alla Tate
Gallery, è sorta come un’impresa speculativa che estendeva la partecipazione al
mondo dell’arte al maggior numero possibile di artisti e considerando i
fruitori come un pubblico di consumatori con una logica neoliberista. Anche Larry
Gagosian dà il suo apporto in questa panoramica con le sue tredici Gallerie
distribuite su tutto il pianeta e la sua “filosofia” di espansione brandizzando
sempre i soliti artisti. Esiste come “un cerchio magico” che decide le
quotazioni nelle aste (con le prevendite assicurate) e le sorti di chi dovranno
essere gli artisti superstar, sempre i soliti nomi, naturalmente, finché la
parabola di questi ultimi scende per lasciare spazio alla carriera di giovani
artisti sempre creata e portata avanti dallo stesso mercato senza nessun
apporto né da critici e neanche dai musei. Un mercato costituito da
collezionisti e mercanti insieme, difficilmente distinguibili da chi professa
l’una o l’altra professione (lievitando i prezzi) e fra questi, oltre a Peter
Brant, troviamo la famiglia reale del Qatar, i Mugrabi, il gallerista di New
York William Acquavella. E che dire di
un’Istituzione come la Biennale di Venezia! L’edizione del 2013 curata da Gioni,
non ha fatto capire nulla su chi è artista e chi no, cosa è arte e cosa non è.
Vi si trovavano accomunate le figure più disparate: dai ricercatori agli
autodidatti, agli psicopatici, dai filmmaker ai video artisti alternativi, dall’antropologia
all’anti arte, da chi vuole trasformare la tecnologia e la scienza in arte,
tante cose bizzarre, marginali ed estranee al mondo dell’arte, e tante
inclassificabili. Un cambio di direzione è stato salutare, con la svolta di Okwui
Enwezor. L’edizione della Biennale 2015, infatti, ha rivalutato la figura
dell’artista come persona colta, quasi sempre ben equipaggiata da titoli
accademici. Vien da fare una riflessione che spiegherebbe, in parte il
problema. L’inutilità di quest’attività ha conferito una totale autonomia, per
cui l’arte è concentrata su se stessa: gli artisti visuali sono intellettuali
in quanto mirano a sollevare problematiche d’ogni genere, intenti a creare
collegamenti con altre discipline, come la filosofia, la storia, la critica, la
politica, la psicanalisi e ad altro ancora. Sostanzialmente l’arte è
autoreferenziale e non ha interesse a suscitare emozioni. Quanto spazio e peso
ha oggi la Cultura? La risposta è superflua.
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